Un forte legame con il passato fa del Sumo Giapponese non solo una lotta ma una continua riscoperta delle tradizioni di un mondo antico. La disciplina, nata nel 1600, non gode dello splendore di un tempo probabilmente perché non riesce ad andare di pari passo con le esigenze e il modus vivendi della società moderna. Questo contribuisce a fare dei lottatori (rikishi) delle star decisamente anomale e, allo stesso tempo, uniche. Così distanti dagli odierni canoni di forza e bellezza, quella dei rikishi è una tradizione esclusivamente maschile: la disciplina, infatti, non è aperta alle donne.
Il live-style del Sumo
L’atleta che pratica questa disciplina decide di abbracciare la filosofia del sumo con il suo stile di vita e le sue regole. Tutti i lottatori devono frequentare le scuole di Sumo (le Heya). I giovani atleti vengono invitati presso le scuole dove si impara la prima e fondamentale regola: nessuno ti insegna nulla se non te lo meriti. Tutto ciò che si impara viene insegnato non dai maestri ma grazie ai consigli dei lottatori più esperti. Presso la scuola gli atleti seguono una particolare dieta per raggiungere il loro peso ed allo stesso tempo rimanere agili e forti. La loro dieta è a base di chanko-nabe, un minestrone proteico la cui ricetta varia a seconda dell’Istituto.
Il regolamento del Sumo prevede che i rikishi utilizzino variopinti perizomi (mawashi) e l’acconciatura dei capelli debba essere impreziosita da un nodo (oicho) che richiama la foglia di ginco. La categoria più importante è la Yokozuna, a cui appartiene l’unico e miglior lottatore che non può retrocedere da questa categoria. Lo Yokozuna può ritirarsi, cedendo il posto ad altri aspiranti, quando ritiene di non essere più in grado di combattere. Con 746 vittorie e 144 sconfitte, Taiho Koki, lottatore attivo tra gli anni ’60 e ’70, è considerato lo Yokozuna più forte di tutti i tempi. Deteneva anche il record di campionati vinti con il punteggio perfetto di 15 vittorie e zero sconfitte. Primato infranto solo nel 2013 dall’attuale Yokozuna, Hakuho Sho.
Delle rigide regole per un gioco pericoloso
Annualmente si svolgono 6 tornei dalla durata di 15 giorni ciascuno. Ogni lottatore ha in programma un incontro giornaliero ed il torneo è vinto dal rikishi che si è aggiudicato il maggior numero di incontri. Al termine di ogni torneo si stila la classifica finale (banzuke): con 8 incontri vinti il lottatore sale di categoria, con 8 persi retrocede a quella più bassa.
La vittoria spetti al lottatore che atterra o riesce a spingere all’esterno del dohyo (un ring costruito in paglia e sollevato da terra) l’avversario. I combattimenti (hon-basho) si svolgono solamente nei mesi dispari e durano 15 giorni. Gli incontri possono durare pochi secondi o parecchi minuti e sono permessi schiaffi con la mano aperta nella parte superiore del corpo ma non si possono dare pugni, calci e tirate di capelli.
I rituali del Sumo
Quando salgono sul dohyo per la presentazione, i lottatori indossano un grembiule con simboli e colori che li rappresentano: l’equivalente dell’accappatoio dei pugili. Segue quindi il cerimoniale per l’apertura dei combattimenti (Yozuna dohyohiri): a seguito del lancio del sale, gesto scaramantico a protezione degli infortuni. Un altro gesto rituale è rappresentato dallo shiko, movimento eseguito dai lottatori in cui viene alzata la gamba e portata quasi in posizione verticale, per poi sbattere a terra il piede, producendo un forte rumore.
Questa ritualità è il chiaro richiamo alla religione Shinto e alle “danze” che nell’antichità erano praticate nei templi. Anche a conclusione della giornata di torneo, un giovane lottatore riceve un arco lungo dall’arbitro. Viene così messa in scena una danza rituale (yumitori-shiki, “yumi”= arco, “tori”=prendere, “shiki”=cerimonia) con un rigido cerimoniale.
L’arbitro di Sumo è una cosa seria
Anche l’arbitro degli incontri (Gyoji) ha dei rituali da rispettare e una rigida gerarchia da scalare che rende questa una vera e propria carriera. Spesso si diventa tali in età adolescenziale e non si può continuare oltre i 65 anni d’eta. Gli scatti di carriera del Gyoji equivalgono a quelli delle categorie dei lottatori. L’arbitro più anziano ed esperto (Tate-gyoji) ha anche l’outfits più complesso.
Oltre al ventaglio, simbolo della sua autorità, l’arbitro indossa abiti tradizionali con colori, fiocchi e decorazioni differenti a seconda del grado. Un pugnale spunta vistosamente dalla cintura degli arbitri più importanti: ricorda l’antica usanza per cui, se si fosse sbagliato nel giudicare un atleta, si sarebbe suicidato. Oggi, invece di pugnalarsi, quando la decisione di un Tate-gyoji viene smentita dalla giuria, questi sono tenuti a presentare le proprie dimissioni. Come anche i lottatori, gli arbitri prendono un nome professionale ispirato alle grandi famiglie della tradizione del Sumo giapponese. Kimura Shōnosuke e Shikimori Inosuke sono i nomi, rispettivamente, del primo e del secondo arbitro e vengono ceduti agli arbitri successivi.
Osservando tutti questi rituali e l’immagine legate alle tradizioni che si evincono dai movimenti dei lottatori si percepisce il legame con il passato e la conservazione forte di una identità valorizzata attraverso lo sport e la pratica di questa antica disciplina nata secoli fa. Il Sumo è parte integrante della storia del popolo giapponese ed ha un’identità solida, portata avanti con rigore e determinazione, che non può e non deve sparire.