“Sivori è più di un fuoriclasse, per chi ama il calcio è un vizio”. Così lo definiva Gianni Agnelli. Omar Sivori è stato il primo bad boy e il primo fuoriclasse nella storia del nostro calcio. Tra giocate sensazionali e litigi, in pochi hanno dato quello che ha dato lui nell’evoluzione del nostro modo di giocare.
“Chi è quel ragazzino pieno di ricci?”
La storia di Omar Sivori ha inizio in una cittadina nei pressi di Buenos Aires, in una famiglia di origini italiane. Nasce con “la bola” tra i piedi e a metà degli anni ’50, a 17 anni entra già a far parte della prima squadra del River Plate. Con “el mas grande” è subito protagonista, aiutando la squadra a conquistare il campionato nel 1955, ai danni dei rivali del Boca, e nel 1956. Il definitivo salto di qualità e la vetrina per il calcio europeo gli viene regalata dalla Seleccion nell’estate del 1957. Insieme a Maschio e Angelillo, il trio degli angeli dalla faccia sporca, conquista la Copa America. Ormai il nome di Sivori è sulla bocca di tutti ma ad anticipare la concorrenza è l’avvocato Agnelli, uomo sempre dedito al calcio spettacolare e ai giocatori con un estro fuori dal comune. Vuole Sivori, e avrebbe sborsato qualsiasi cifra per portarlo a Torino. Il 12 giugno del 1957 diventa un giocatore della Juventus per 190 milioni di lire, soldi che basteranno al River per terminare la costruzione dello stadio.
Arriva in una Juventus spodestata dal trono d’Italia ormai da 6 anni e in un solo anno ripaga la fiducia dell’avvocato a suon di gol, prestazioni monstre e lo scudetto a fine stagione. L’argentino realizza 22 reti mentre il compagno di reparto John Charles 28, prendendo parte a 50 gol sui 77 totali realizzati dalla squadra. El Cabezon si presenta subito per quello che è: un giocatore non in stile Juventus, caratterialmente parlando non conforme ai canoni societari, ma maledettamente seducente con la palla tra i piedi. Era un narcisista, innamorato del bel gioco nonché il primo calciatore moderno di sempre, uno che giocava anche per lo spettacolo e per le telecamere.
Il Pallone d’Oro, Herrera ed il Napoli
La stagione successiva non si rivela la migliore dal punto di vista collettivo nonostante i suoi 15 gol. L’obiettivo scudetto sfuma a causa dei punti persi contro le cosiddette piccole. La Vecchia Signora però perdona raramente e già dall’anno successivo si rimette in carreggiata: titolo conquistato nel 1959/60 e nel 1960/61. Oramai Sivori poteva fare ciò che voleva. Dava spettacolo, tutto intorno a lui doveva piegarsi in modo che la domenica si sentisse ispirato per farlo. Si concedeva qualsiasi vizio: andava nei posti in cui voleva lui, mangiava ciò che voleva lui e tornava a casa all’ora in cui voleva lui e nessuno poteva impedirglielo perché buona parte del pubblico la domenica era lì per assistere alle sue magie. Nel 1961 acquisisce la Nazionalità italiana, diventando uno dei pretendenti per il Pallone d’Oro, all’epoca riservato solo ai giocatori europei. Inutile dire che verrà insignito del premio quello stesso anno.
Ormai non solo Torino ma tutta Europa è pazza di lui. Come però accade in ogni storia, calcistica in particolare, arriva un momento in cui le strade devono separarsi. È il 1964, quando alla guida tecnica della Juve viene scelto Heriberto Herrera. Un allenatore preparato tatticamente ma meno dal lato umano. Ogni allenamento doveva esser fatto alla massima intensità e gli 11 che scendevano in campo dovevano essere pronti al sacrificio, nessuno escluso. Eresie per Omar. Sapeva di fare la differenza e non avrebbe mai fatto il lavoro di un gregario. Così nel 1965 viene acquistato dal Napoli, società non ancora abituata a lottare per i vertici ma in compagnia di Altafini, porta la squadra a centrare un quarto, un terzo ed un secondo posto. Il suo carattere burbero e la sua incapacità di fare buon viso a cattivo gioco, purtroppo lo segue anche nel Mezzogiorno. In un Napoli-Juventus del 1968, perde le staffe e rimedia 6 giornate di squalifica che sommate alle precedenti fanno salire il numero a 33 partite lontano dai campi per motivi disciplinari, praticamente un intero campionato.
Il ritiro e l’eredità
Come spesso gli è capitato durante la vita, Sivori stupisce tutti, questa volta però non in mezzo al campo. Il 21 dicembre del 1968, in diretta a Canzonissima, annuncia il suo addio al calcio. Come lui stesso ha spiegato, era una decisione che meditava da tempo e le 6 giornate di squalifica sono state un pretesto. “A 33 anni si può essere stufi di prendere calci ogni domenica”. Già perché probabilmente immaginiamo un calciatore alla Messi o alla Neymar, che con i suoi dribbling saltava ogni avversario e così era. L’enorme differenza tra i campioni di oggi e Omar sta tutta nelle regole del gioco, nel modo di difendere e soprattutto nella tutela dei campioni da parte degli arbitri. “Le mie giornate di squalifica sono una conseguenza del cattivo arbitraggio. I difensori miravano alle gambe, semplicemente mi difendevo o protestavo. Gli arbitri erano incapaci di reprimere il gioco duro”.
Difficilmente al giorno d’oggi la figura di Sivori viene inserita tra i migliori di sempre ma chiedetelo a chi quel calciatore lo ha vissuto e sono sicuro che lo inserirà nei primi posti. “Era un genio assoluto, l’anarchia come disciplina superiore del calcio” diceva Jorge Valdano. E’ arrivato lui e ha fatto capire all’Italia intera che di calcio non sapeva nulla. Era irriverente, ti puntava con gli stinchi nudi, quasi ad incoraggiare il fallo, ma il difensore sapeva che difficilmente ci sarebbe riuscito. I bambini dell’epoca scendevano al parco con un pallone e i calzettoni abbassati alla sua maniera. L’Italia, indipendentemente dalla fede calcistica, era follemente innamorata di quell’Angelo dalla faccia sporca perché fino a quel momento nessuno aveva mostrato quelle giocate con un pallone tra i piedi.