Nadia Comaneci e Simone Biles: Non è tutto oro quello che luccica

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Cosa hanno in comune due donne, due atlete, una nata in Romania nel 1961, l’altra negli Usa nel 1997? Prima di capirlo bisogna individuare i due personaggi in questione. Se gli indizi per arrivare a capire di chi stiamo parlando fossero unicità, perfezione, carriera da ginnaste e record non avremmo molti dubbi nell’indovinare le due protagoniste sportive: Nadia Comaneci e Simone Biles. Le due appartengono a tempi e luoghi diversi e lontani tra loro ma hanno in comune molto più di quello che si potrebbe pensare.

Simone Biles

La regressione sociale a riflettori spenti

Il momento in cui il riflettore più luminoso brilla è quello delle Olimpiadi. Quando una ginnasta, dopo tanto impegno, sacrificio, sudore, completa la performance e il pubblico esplode in un applauso che ne indica il successo. Questo è il primo denominatore comune tra i due termini di paragone, le due stelle della ginnastica: Nadia Comaneci e Simone Biles. Le due sono considerate le più grandi ginnaste di tutti i tempi, non a caso. La prima ( per una questione cronologica) detiene il record del ’10 perfetto’ alle Olimpiadi di Montréal del 1976. La seconda è la ginnasta più premiata di sempre ed è stata la prima e unica a vincere ben cinque titoli mondiali.

Il sogno di tutte le bambine che, sin da piccole, intraprendono questo sport, è quello di arrivare così in alto e continuare sempre a librare in aria, come libellule, libere e felici. Certo, quelle bambine non possono poi immaginare che nel momento in cui la ginnastica diventa ragione di vita, viene meno la combinazione tra la libertà del corpo e la libertà dello spirito. E questo, la privazione della libertà, è il secondo punto che accomuna le due atlete. Seppur in modi diversi, entrambe sono state soggette ad abusi, fisici e mentali. Ciò le rende esempi di forza, ma anche di denuncia e indignazione. Le loro storie convergono in una sola, diventando indice di un’involuzione, quella sociale, che parte dal 1976 e arriva sino ai nostri giorni. Le cose sarebbero potute cambiare e invece, senza osare con le parole, sono peggiorate.

nadia comaneci e simone biles

Dalla medaglia d’oro alla gabbia dorata

Nadia ha tre qualità fisiche: forza, rapidità, agilità. E tre mentali: intelligenza, capacità di concentrazione e soprattutto coraggio”. Con queste parole Béla Károlyi definì una giovanissima Nadia. Béla Károlyi era il suo severo allenatore che la notò sin dai tempi dell’asilo. I ritmi a cui la costringeva erano insostenibili per un minuta ragazzina. Ma i risultati arrivarono. Avere un’atleta che raggiungesse la perfezione, i premi e gli applausi su un palcoscenico internazionale, voleva dire, per la Romania di quegli anni, avere gli occhi del mondo addosso. Un prestigio senza eguali portato dalla popolarità della giovane sportiva. Divenne così il miglior prodotto e il vanto del paese nonché, di conseguenza, strumento di propaganda. Il governo la accolse al ritorno con grande calore: venne riempita di onorificenze. Le regalarono una villa dove poteva vivere, ma in solitudine, niente amici o parenti.

Nessun regalo: dietro a quella corte c’era soprattutto la depravazione, la perversione e la cieca follia del figlio del tiranno. Nicu Ceaușescu, il terzo figlio del dittatore e della perfida moglie Elena, era il prediletto della famiglia. Era un uomo di poco valore etico, dedito all’alcool e al gioco d’azzardo, violento e spietato. Si invaghì dell’allora minorenne Nadia e la pretese come amante. Andargli contro sarebbe stato impossibile. Le donne che voleva non avevano modo di scegliere se accompagnarsi a lui o no. A lui doveva essere affidata la perdita della verginità delle figlie dei gerarchi, per dirla in modo eufemistico. Nadia Comaneci divenne vittima di questo meccanismo del potere con la sola colpa di essere popolare. Avere quel successo le tolse l’invisibilità rendendola schiava e infelice. Dall’oro delle Olimpiadi passò all’oro che Nicu le regalava: l’oro della sua nuova vita, sì dorata ma in balìa di un aguzzino.

nadia comaneci e simone biles
Nadia Comaneci

Il sogno commercializzato a suon di caramelle e abusi

La felicità dell’oro olimpico divenne un ricordo lontano. Esattamente come lo stava diventando per Simone Biles quando nel 2018 si è così espressa in un Twitter:
Molti di voi mi conoscono come una ragazza felice, sorridente e piena di vitalità. Di recente però mi sentivo a pezzi e più cercavo di far tacere la voce nella mia testa, più risuonava. Non ho più paura di raccontare la mia storia. Anch’io sono una delle tante persone che sono state abusate sessualmente da Larry Nassar“. Simone Biles, ginnasta con un record imbattuto per numero di medaglie, all’età di 23 anni vanta già una carriera unica e molto da raccontare. Tra cui lo scandalo della Usa Gymnastics, squadra olimpica di cui faceva parte. La federazione americana ha occultato le prove, manipolato le accuse delle atlete e coperto le colpe del dottor Larry Nassar, reo di aver abusato di più di 350 ragazze che di lui si fidavano. Lui le confortava dopo i duri allenamenti, regalava cibo e caramelle di nascosto pur di guadagnare la loro fiducia.

Dietro alla gravità del fatto in sé, perpetrato fin dai primi anni ’90, c’è anche di più. C’è la complicità degli allenatori e del presidente della Usa Gymnastics. C’è la manipolazione e il metodo coercitivo su spiriti puri, ingenui e più deboli. Alla violenza sessuale si aggiunge la violenza psicologica del non farle sentire mai abbastanza. Mai abbastanza adatte fisicamente o brave: il ‘mai abbastanza‘ usato come arma per far accettare qualunque oscenità, persino gli abusi. Dietro l’occhio cieco e l’orecchio sordo di chi vedeva e sentiva benissimo, c’è la volontà di non voler creare scandalo. Già nel ’91 la Usa Gymnastics aveva un fatturato da 12 mln di dollari da salvaguardare: le aziende volevano essere associate a quella realtà, a un sogno sportivo pulito e giovane. La commercializzazione di quel contesto è sempre stato un obiettivo primario. Il sogno di quelle bambine, tra cui Simone Biles, è stato sfruttato per costruire un marchio. Per quasi 30 anni.

nadia comaneci e simone biles

Nadia Comaneci e Simone Biles:
Il coraggio delle donne in una società che le odia

Oggi le cose sono cambiate. Sono cambiate per le donne che per anni hanno mantenuto questo dolore dentro di loro, tornate ad essere libere e leggere, così come lo sport, per cui hanno da sempre sudato, impone. Sono cambiate per Nadia Comaneci che, dopo un tentato suicidio e 5 anni di relazione/prigionia, è fuggita negli Stati Uniti. Qui rincontrerà Bart Conner, innamorato di lei dalle Olimpiadi di Montréal del 1976. Con lui si sposerà e dopo 10 anni di matrimonio, nel 2006 avrà il suo unico figlio. Storie con un lieto fine. Tuttavia, il finale deriva dal coraggio delle donne. È questo il denominatore comune più meritevole di menzione delle due ginnaste: il coraggio del non doversi scusare per chi si è. La forza di non farlo anche nel momento in cui qualcuno lo mette in dubbio. La consapevolezza di non dover pagare nessuno scotto per il proprio successo.

La storie di Nadia Comaneci e di Simone Biles (e con lei tutte le centinaia di ragazze abusate alla Usa Gymnastics) accendono le luci su una piaga sociale più grande: l’accettazione e la normalizzazione da parte della nostra società degli abusi sulle donne. Il silenzio complice di chi accompagnava le atlete americane, ed era consapevole degli abusi, è la rappresentazione che il problema è sociale e più profondo. “Non si può ottenere uno come Nassar, cioè un pedofilo in grado di abusare di ragazzine, senza una base culturale che glielo consente“: queste le parole di Rachael Denhollander, ex ginnasta e prima a denunciare il medico pubblicamente. Perché silenzio e omertà, cancellano le colpe, che sono di chi agisce e non di chi subisce. Quello che era sbagliato negli anni ’80 in Romania è ancora sbagliato nei nostri giorni, in un Occidente che si fa paladino della libertà individuale. Ma nulla è cambiato. Una donna abusata è una donna che viene privata della sua libertà. Non c’è oro abbastanza luminoso in grado di offuscare un’ombra così scura nella sua vita.

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