Atleta dal fisico perfetto, intelligente, con cura per sé stesso e per le persone che lo circondavano. Questa descrizione è esattamente l’opposto di quella che è stata la vita del nostro protagonista, Manoel Garrincha. Per molti l’ala destra più forte che si sia mai vista su un campo di calcio, nonostante le innumerevoli imperfezioni fisiche e psichiche.
I primi zoppicanti passi
Manoel Garrincha nasce a Pau Grande nel 1933 nello Stato di Rio de Janeiro. La sua vita è da subito un susseguirsi di avvenimenti particolari, a partire dalla registrazione all’anagrafe. Il padre Amaro, dichiarò che il neonato aveva visto la luce il 18 ottobre, quando in realtà era nato dieci giorni dopo. Come se non bastasse, nel momento di scegliere il nome, il padre dice all’anagrafista “solamente Manoel“, dando per scontato che il cognome fosse Dos Santos, tratto distintivo di entrambi i genitori. Così il piccolo Manoel non avrà un effettivo cognome. Non male per i primi istanti di vita di un bambino che si scoprirà un prodigio “do futebol”. Già in età infantile si intuiscono in lui delle malformazioni piuttosto evidenti. Un leggero strabismo, la spina dorsale deformata, bacino sbilanciato, le ginocchia affette nel caso del sinistro da varismo, e il ginocchio destro affetto da valgismo, il problema opposto. Fino ad arrivare al suo più famoso e più visibile difetto: Manè ha una gamba più corta dell’altra di 6 centimetri.
I dottori ma anche gli amici gli dicono di lasciar perdere il calcio, che per quelli come lui non è la strada giusta. Fino al 13 marzo 1953, quando il giovanissimo Garrincha fa il suo provino con il Botafogo. Le leggende su quella giornata sono molteplici in Brasile ma esiste anche una testimonianza, rilasciata da uno dei protagonisti di quel provino, ovvero Nilson Santos, soprannominato da tutti Enciclopedia. “Quando lo vidi – dichiarò poi Nilson – mi sembrava uno scherzo, con quelle gambe storte, l’andatura da zoppo e il fisico di uno che può fare tante cose nella vita meno giocare al calcio. Come gli passano la palla gli vado incontro cercando di portarlo verso il fallo laterale per prendergliela con il sinistro, come facevo sempre. Lui invece mi fa una finta, mi sbilancia e se ne va. Nemmeno il tempo di girarmi per riprenderlo e ha già crossato. La seconda volta mi fa passare la palla in mezzo alle gambe e io lo fermo con un braccio e gli dico: senti ragazzino, certe cose con me non farle più. La terza volta mi fa un pallonetto e sento ridere i pochi spettatori che assistono all’allenamento. Mi arrabbio e quando mi si ripresenta di fronte cerco di sgambettarlo, ma non riesco a prenderlo. Alla fine andai dai dirigenti del Botafogo e gli dissi di tesseratelo subito, ché quello era un fenomeno”.
Il Botafogo e lo psicologo
Dunque grazie al suggerimento di una delle stelle della squadra, il Botafogo acquista il giovane Manè per 500 cruzeiros, poco più di 20 euro. La squadra bianconera è fortissima: oltre al neoacquisto ci sono per l’appunto Nilton Santos, Vavà e Didì, autentiche colonne portanti della nazionale brasiliana. Nel 1957 conquista il suo primo titolo carioca. In patria incantava con giocate surreali e dribbling incontenibili tanto è vero che come racconta Saldanha, allenatore di quel Botafogo nella sua biografia, è per lui che nasce negli stadi l’esclamazione “Olè”. La vittima fu Vairo, terzino sinistro del River Plate che in una partita venne saltato per un numero non calcolabile di volte e così il pubblico iniziò a pronunciare quell’esclamazione ormai famosissima nei campi di calcio. All’epoca però pochi, all’estero, avevano la possibilità di conoscere e vedere le partite del campionato carioca e le fortune dei calciatori arrivavano perlopiù nelle partite delle Nazionali.
L’esordio di Manè con la Seleçao arriva il 18 settembre 1955. Le prime partite non furono delle migliori. Il ricordo del Maracanazo era ancora molto presente nella memoria brasiliana e non era semplice per un ragazzino inserirsi in quel contesto. Nel 1958 viene preconvocato con la squadra che doveva prendere parte al mondiale in Svezia. In quell’edizione il Brasile introduce la figura dello psicologo e tra i primi con cui volle interloquire, rientravano Manè e un altro ragazzo Edson Arantes do Nascimento, al secolo Pelè. I due vengono giudicati inadeguati. Il futuro Rey (17 anni) viene catalogato come infantile mentre Garrincha viene definito un Minus Habens: uno stupido. La “diagnosi” diceva che questi due centrassero poco con il calcio. Il C.T. però decise di dare retta ai senatori della squadra portando i due in Svezia. Da lì in poi il gioco del calcio non sarà più lo stesso e il Brasile non perderà una partita dal 1958 al 1966.
La Seleçao di Garrincha
Si parte dunque alla volta della Svezia con i due ragazzini convocati ma seduti in panchina per le prime due partite. Alla terza, il C.T. decide di gettarli nella mischia. In 2 minuti i due annientano la Jugoslavia. Il Brasile arriva in fondo a quel mondiale battendo la Svezia di Liedolhm per 5-2 e laureandosi per la prima volta campione del mondo. “L’ha vinto Garrincha, come quello in Cile. Tutti dicono Pelè, ma senza Garrincha quel Brasile non sarebbe stato immenso“. Parole di Josè Altafini, uno che di calcio se ne intende. Quattro anni più tardi, il Brasile deve difendere il titolo in Cile. Questa volta però non c’è Pelè che esce malconcio dalla partita d’esordio. Questo responsabilizza ancora di più “lo storpio” esterno destro brasiliano che è semplicemente immarcabile. In quel mondiale Garrincha segnerà 4 gol oltre a una quantità industriale di occasioni create. La palma di miglior giocatore del torneo e la seconda coppa del mondo portano entrambe il suo nome.
Ormai tutto il Brasile e non solo è ai suoi piedi. Passati altri quattro anni, nel 1966 la formazione verdeoro è chiamata all’impresa in terra di sua Maestà. Molte storie su quel mondiale parlano di una sorta di complotto o almeno di uno sfavoreggiamento nei confronti delle formazioni sudamericane. Al Brasile toccarono due arbitri inglesi e un tedesco e, riguardando le immagini, sembra proprio che qualcosa non quadri. I brasiliani battono 2-0 all’esordio la Bulgaria in una gara che fu più una caccia all’uomo più una partita di calcio. Pelè si farà sostituire nel primo tempo, e non vedrà più il campo in tutto il torneo. Manè resisterà pur non essendo più abile dal primo tempo in poi. Entrambi però riescono a metterci la firma con due calci di punizione. Manè, in particolare, realizza un gol ai limiti della fisica. Una punizione d’esterno destro che si infila alla sinistra del portiere perfettamente sotto l’incrocio. Sarà la loro ultima partita insieme oltre all’ultimo gol di Garrincha in Nazionale. Perderanno le successive due partite contro l’Ungheria ed il Portogallo di Eusebio, che con una doppietta condanna il Brasile al ritorno a casa.
La vita privata e gli ultimi anni di vita, passando da Sacrofano e Torvajanica
Arrivati a questo punto lo avrete capito. Garrincha è stato un calciatore senza eguali, con un dribbling che non si era mai visto prima e che in pochi riusciranno a replicare. Ma Manè è stato soprattutto un uomo imprevedibile. I figli riconosciuti dal campione carioca sono 14 ma si dice che, con quelli illeggittimi, possano arrivare addirittura a 35. Insomma, uno dei due punti deboli di Manè erano le donne. Si sposa per la prima volta a 18 anni, matrimonio obbligato dopo la gravidanza della consorte Nair Marques. Ne seguiranno altre 7. Le tracce genetiche di Garrincha arrivano addirittura in Svezia dove nel 1959, dopo la vittoria della Coppa del Mondo, si intrattiene con una ragazza del luogo. Dalla loro frequentazione nasce Ulf Lindberg Garrincha, unico figlio ancora in vita.
Nel 1961 conosce Elza Soares, nota cantante brasiliana. Ne venne fuori una rovente storia d’amore che li portò fino a Roma. I due si lasciarono nel 1977, dopo 11 anni di matrimonio e un figlio. La dipendenza dall’alcool gli stava togliendo il calcio, il sorriso, la famiglia e di lì a poco anche la vita. Ci ha lasciato il 20 gennaio del 1983, da solo in un letto di ospedale per un edema polmonare. I suoi resti si trovano a Magè, Rio de Janeiro, in un sepolcro semi abbandonato con un’epigrafe: “Qui riposa colui che fu la gioia del popolo, Manè Garrincha”. Un vecchio detto brasiliano recita, “ancora oggi, se chiedi a un vecchio brasiliano chi è Pelè, il vecchio si toglie il cappello, in segno di gratitudine. Ma se gli parli di Garrincha, il vecchio chiede scusa, abbassa gli occhi e piange”.