The Last Dance mostra molto più della vita di Michael Jordan

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Il mondo si divide in due: chi sa giocare a basket, e chi sa semplicemente che il basket esiste ed è uno sport. Ma alla domanda “chi conosce Michael Jordan?” la risposta sarà per tutti sì, le mani si alzeranno e i ricordi di tutti andranno ai Bulls. Per i pochi che non lo conoscessero, c’è The Last Dance. MJ Arriva in NBA prestissimo, da giovane ragazzo nato nel quartiere di Brooklyn (New York), cresciuto con una grande voglia di dimostrare a sé stesso, alla sua famiglia e a chiunque altro, che non era solo un vincente, era il migliore. Perché? Beh, “il mio gioco parlava per me”, direbbe lui stesso oggi. Michael Jordan è riuscito a fare qualcosa che raramente accade nello sport: diventare mito.

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The Last Dance, una storia di squadra

Dieci puntate che raccontano la vita di un campione chiamato Air Jordan. Il filo conduttore di questa docu-serie, tanto ricercata quanto incredibile per le sue rivelazioni, è la stagione NBA 1997-98. Da qui, si ripercorre la vita di Michael Jordan. Dal trionfo del North Carolina, con la quale vinse il campionato nazionale NCAA nel 1982, al suo esordio in NBA con i Chicago Bulls nel 1984. Dal rapporto con il padre, a quello con l’allenatore Phil Jackson e i compagni di squadra Scottie Pippen e Denis Rodman. Il contratto con Nike firmato grazie ai consigli della madre e l’incredibile successo di una scarpa chiamata Air Jordan. Per poi passare al Dream Team che regalò una medaglia  d’Oro agli USA alle olimpiadi di Barcellona ’92.

Impossibile non ricordare quell’ 8 febbraio 1998 quando, all’All Star Game al Madison Square Garden di New York, MJ e Kobe Bryant si incrociarono per la prima volta in campo. Quel giorno Kobe chiese consigli a Jordan su come eseguire un turnaround efficace come il suo. Da allora i due diventarono amici fraterni.Quando si parla di Michael Jordan, non si parla solo di lui. Si parla anche di un allenatore, Phil Jackson, che è stato l’allenatore più titolato nella storia dell’NBA. La svolta arrivò quando il coach tolse la palla dalle mani di Michael per darla ai compagni. Oltre a questo Phil chiedeva a Jordan più fiducia verso la squadra e verso uno il suo schema d’attacco. 

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(Photo by Andrew D. Bernstein/NBAE via Getty Images)

Come si diventa campioni

Michael Jordan scendeva in campo per vincere e il suo spirito di competizione era in grado di fargli stravolgere il risultato finale. Vinceva partite, sì, ma non campionati. Eppure è difficile capire come una squadra fatta di stelle e talenti, non sia in grado di brillare più in alto delle altre. È difficile capirlo per molti, ma non per chi ha chiaro in testa il reale significato di “gioco di squadra”. Quando i Chicago Bulls passarono alle redini di Jackson, Jordan divenne il campione con la C maiuscola che tutti si aspettavano, all’altezza di Larry Bird e Magic Johnson. Perché?

Perché tirò fuori il meglio dai compagni. Proprio come fa con noi un amico che ha a cuore il nostro futuro, e da noi vuole solo l’eccellenza. E allora dietro alla parola Campione, possiamo scrivere anche le parole Capitano, Trascinatore, Leader. Perché lo sport che metteva in campo MJ, e che mostrava a tutta la squadra, è quello che potremmo definire scuola di vita. È lo sport che ti insegna il rispetto verso le persone e gli impegni presi. Che ti insegna a fare un passo indietro, lo sport che ti insegna a dire ‘io ci sono’. Insegna a credere al ‘se vuoi, puoi’: ti focalizza sull’obiettivo, ti mostra come una squadra unita diventa invincibile anche davanti all’avversario più forte. 

La squadra di The Last Dance

Ma è necessario che tutti i componenti di un gruppo vadano d’accordo e si vogliano bene per diventare una squadra? Per molti sportivi la risposta è NO: il requisito fondamentale che unisce i componenti di una squadra è la voglia di collaborare per raggiungere un obiettivo comune. Soprattutto per il periodo storico che stiamo vivendo, forse non c’è insegnamento migliore. Per arrivare in alto, non serve altro. L’importante è restare uniti. Perché per avere successo non basta una persona, ma serve una squadra e un obiettivo comune: “hai successo solo quando compi un’impresa di successo. Poi devi ripetertidiceva coach Jackson.

Ahmad Rashad, giornalista sportivo dell’NBS una volta disse: ti esaltano, poi ti distruggono. Succede sempre nello sport. Se vinci troppo, vogliono vederti perdere”. È difficile vivere su un piedistallo. È difficile essere un’icona dello sport. Guardando i Chicago Bulls di quei tempi d’oro, oltre a rivivere ricordi di gioventù, ho visto una squadra di successo. Ho visto una squadra costruita per vincere. Un team perfetto, creato a tavolino da un General Manager, Jerry Krause, mai troppo amato. Ho visto un basket che c’è stato e che oggi non c’è più. “The Last Dance” mostra lo sport a 360 gradi e apre gli occhi sugli anni ’90 che sono stati palcoscenico di grandi cambiamenti culturali. Racconta storie di riscatto e spiega i valori dello sport a partire dalla fiducia.

Era Dio travestito da MJ

La magia del gioco NBA ha la capacità di ipnotizzarti come lo spettacolo di fuochi d’artificio durante la Festa del Redentore a Venezia. E non devi conoscere il gioco del basket per rimanerne affascinato: basta un cuore aperto, pronto a scalpitare. Serve solo la curiosità di sapere cosa significa realmente ‘emozionarsi’. Ecco cosa serve. Nient’altro. E fu così, che dopo aver visto The Last Dance, ricorderò le schiacciate di Jordan, gli assist di Pippen, le stoppate di Rodman, e sicuramente non dimenticherò quel tiro da 3 decisivo di Jhon Paxson in gara 6 a Phoenix contro i Suns, che grazie alla fiducia della squadra, diede ai Bulls la vittoria del terzo titolo consecutivo. 

Non ci sono controindicazioni nel guardare “The Last Dance”, se non il rischio di andare su Amazon e comprare un pallone da basket da portare al campetto più vicino casa. E forse, dico forse, ti dispiacerà anche non essere nato prima per poter dire ‘io a Barcellona ‘92 ho visto il Dream Team fare magie con una palla a spicchi’. Chi ha avuto la fortuna di vedere giocare dal vivo Michael Jordan, può ritenersi un privilegiato. Perché le migliori immagini, quelle che ti fanno battere il cuore, ti fanno tremare le ginocchia e ti fanno venire la pelle d’oca, beh, sono quelle scattate con i propri occhi. Michael Jordan non può essere umano per aver fatto quello che ha fatto. “È semplicemente Dio travestito da MJ”, disse un giorno Larry Bird. Beh, chi sono io per contraddirlo? 

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