La storia di Arthur Ashe è quella di un afroamericano che ha lottato per i diritti umani utilizzando il tennis e la sua fama, come mezzi per cambiare il mondo. “L’autentico eroismo è sobrio, non drammatico. Non è il bisogno di superare gli altri a qualunque costo ma il bisogno di servire gli altri a qualunque costo”.
I successi sportivi di Arthur Ashe
Arthur Ashe nasce a Richmond, Virginia, il 10 luglio 1943. Sin da bambino, grazie al padre custode di un impianto sportivo, si avvicina al tennis, iniziando dai campetti di periferia la scalata verso la gloria. Dovette però far fronte ai pregiudizi dell’epoca, per cui la maggior parte dei tornei erano riservati ad americani bianchi e agiati. In quel periodo, negli Stati Uniti, erano ancora in vigore le “Leggi Jim Crow”, ovvero le leggi secondo le quali gli afroamericani (e non solo) dovevano essere separati dal resto della popolazione negli edifici pubblici, come ad esempio la scuola, i servizi sanitari, i mezzi di trasporto e addirittura i ristoranti. Nel 1957, a 14 anni, Arthur partecipa ad un torneo giovanile nel Maryland ma è nel 1963 che attira su di sé gli occhi degli osservatori del circuito vincendo il torneo di Los Angeles.
Nello stesso anno, diventa il primo afroamericano ad essere selezionato per giocare un match di Coppa Davis, conquistando la vittoria in quella edizione e per altre 3 consecutive. Nel 1968 si aggiudica la prima edizione degli US Open, e ormai considerato tra i migliori tennisti in circolazione, partecipa alla formazione della “Association of tennis Professional”, ATP. La carriera professionistica di Arthur dovette interrompersi forzatamente nel 1980 a causa di un infarto. Dopo il ritiro ricoprì molti ruoli nel mondo del tennis tra cui il capitano non giocatore della nazionale Statunitense in Coppa Davis, vincendo “l’insalatiera” nel 1981 e ’82. In quegli anni riuscì nell’arduo compito di far convivere personalità spiccate come McEnroe, Connors e Fleming.
Le lotte sociali
Per Arthur, crescere nell’America degli anni ’50/’60 non deve essere stato facile. Forse è per questo che Ashe ha utilizzato il suo talento e la sua popolarità per far emergere le condizioni delle minoranze più “deboli”. Nel 1968 il governo sudafricano lo esclude dall’Open di Johannesburg. Ashe ovviamente non ci sta, vuole vincere, non per lui, ma per tutti i suoi “fratelli” che aspettano un suo successo per poter gridare al mondo la loro esistenza. Da quell’esclusione nasce una lunghissima lotta all’Apartheid, iniziata chiedendo l’espulsione del torneo sudafricano dal circuito ATP.
Ancora oggi lo sport e personaggi come Arthur Ashe sono considerati la più grande arma utilizzata nella lotta all’apartheid. Nel 1990, grazie al suo attivismo politico e alla sua tenacia, ebbe l’onore di incontrare Nelson Mandela, che lo volle conoscere appena uscito dal carcere, dopo averlo tifato spasmodicamente a Wimbledon, con l’orecchio attaccato alla radiolina, nella sua cella di Robben Island.
La malattia e gli ultimi anni di vita
Le battaglie di Arthur però non sono terminate. Dopo altre grandi vittorie come quella di Wimbledon nel 1975, primo tennista nero a riuscirci, nel 1988 scopre di aver contratto il virus dell’HIV. La causa è una trasfusione mal effettuata in uno degli interventi al cuore. Una notizia scioccante che ha deciso di tenere segreta fino al 1992. Quando capì che stava iniziando a circolare, fece quello che era solito fare in campo, giocò d’anticipo, dimostrando ancora una volta il suo carisma e la sua lungimiranza. Decide di indire una conferenza in cui annunciava al mondo la sua malattia. Da quel momento inizia un’altra battaglia, quella contro l’AIDS, la cosiddetta peste del secolo, considerata fino a quel momento una malattia legata alla tossicodipendenza o ai rapporti a rischio: di certo non associabile ad uno sportivo professionista.
Arthur unisce tanti sportivi che insieme a lui si daranno da fare in questa battaglia, come Magic Johnson, stella afroamericana dei Los Angeles Lakers. Nell’ultimo anno di vita fonda la Arthur Ashe Institute for Urban Healt, per aiutare le persone senza un’assistenza medica sufficiente. Dopo la sua morte, gli viene dedicato il campo centrale degli US Open, oltre alla Presidential Medal of Freedom, decorazione conferitagli da Bill Clinton, ed è assieme alla Medaglia d’oro del Congresso, la massima onorificenza degli Stati Uniti.
Il lascito di Arthur Ashe
Arthur Ashe non è stato un semplice sportivo, è stato una guida, un idolo, un fratello, un politico, come Mohamed Ali. Sportivi che hanno fatto della fama un mezzo, non un fine e che per questo vivranno in eterno. Diranno di lui che “Era l’archetipo dell’atleta che è più grande dello sport che pratica. Arthur Ashe era molto più grande del tennis stesso”. Ma noi vogliamo ricordarlo con una sua frase, che racchiude tutti i valori e quella che è stata la sua vita. “Ci sono i vincenti e i campioni. I vincenti sono quelli che riempiono di trofei le bacheche. Ma la storia la fanno i campioni, quelli che arrivano in uno sport e lo lasciano in condizioni diverse e migliori di come lo hanno trovato”. Senza Ashe il tennis odierno sarebbe un sport completamente diverso. Grazie Arthur.