Nel 2020 si è conclusa con un pugno di mosche la vicenda di Luis Suarez, al centro della bufera sull’esame di italiano. Decidendo di rimanere in Spagna e non passare alla Juve, sembra quasi che abbia alzato un polverone per nulla. Ma sarebbe un errore sottovalutare il rapporto tra sport e cittadinanza. Il polverone ha portato alla ribalta, di nuovo, la vergognosa via crucis che in molti devono affrontare nel proprio paese, l’Italia, per vedersi riconosciuta la cittadinanza. Tra questi, anche tanti sportivi che per molti continuano a essere italiani solo quando vincono. E spesso non basta.
Lo sport non ha cittadinanza ma il podio la reclama
In tanti casi, troppi, la procedura per ottenere la cittadinanza si è rivelata farraginosa. Il decreto sicurezza del 2018 ha allungato l’iter burocratico. Introducendo anche il conseguimento del livello b1 presso uno degli enti certificatori. Nel nostro Paese, come scritto sul sito del Ministero degli Affari Esteri, vige il principio della “trasmissibilità della cittadinanza per discendenza”. Inoltre abbiamo visto che, al di là dello ius sanguinis, la maggior parte degli atleti (e delle atlete) non sono tutelati dal contratto. E che rimanere incinta può essere peggiore di rompersi una gamba.
Auguriamo il meglio a Luis Suarez, marito di una cittadina italiana di origini friulane. La Juve aveva già raggiunto il limite di due giocatori extracomunitari non provenienti dalla Serie A per quella stagione di calciomercato con Arthur (brasiliano) e McKennie (statunitense). Da qui l’urgenza di ottenere la cittadinanza italiana per arruolare l’uruguaiano in bianco nero. Amare realtà viste, riviste e che rivedremo. Per contrasto, però, il caso fa emergere la storia di tutti coloro che da anni cercano di vedersi riconosciuta la cittadinanza italiana, oltre di sentirsi già italiani a tutti gli effetti. E che si trovano coinvolti, loro malgrado, in un teatro dell’assurdo. Oltre che da insulti razzisti sul campo e dagli spalti degli stadi. Una cittadinanza voluta e desiderata, ma che viene spostata sempre più in là. Mentre, al contrario, ci si potrebbe domandare se ognuno di noi possegga una minima parte dei requisiti morali e valoriali di cui la cittadinanza è foriera.
La storia di Danielle Madam, una “cittadina” dello sport
C’è una ragazza che frequenta il liceo e che ha una struttura fisica robusta. Il prof le consiglia il lancio del peso. Lei prova, poi prende il la e inizia a vincere. Si allena e vince ancora. Finché non ottiene il titolo di campionessa italiana. Lo otterrà – fino a oggi – per altre quattro volte. Ma sa di non poter valicare il tetto di cristallo. Le sue compagne, più o meno meritevoli, hanno comunque la possibilità di gareggiare ad alti livelli. Lei è bloccata. Si chiama Danielle Frederique Madam, si allena con la Bracco Atletica di Milano e ha la cittadinanza camerunense. È arrivata in Italia con i genitori quando aveva sette anni. E lo Stato le riconoscerà la cittadinanza italiana fra un decennio. Proprio a causa della mancata coincidenza fra domicilio e residenza durante quel periodo.
La sua è la storia di tanti atleti extracomunitari che non possono rappresentare né l’Italia né il proprio paese d’origine. È una storia di cittadinanza e di amore, amore per lo sport. “Questo è davvero troppo! Ci sono extracomunitari di serie A (in tutti i sensi) ed extracomunitari di serie B, o meglio, c’è chi guadagna 10milioni a stagione“, scrive su Facebook la campionessa. “Ci sono tanti giovani che come me hanno passato la più parte della loro vita qui, studiano o lavorano ma sono fantasmi per lo stato“. Danielle Madam parla chiaro: “Nonostante tutto credo in questo paese, credo nella giustizia e spero che un giorno qualcuno dall’alto si metterà la mano sulla coscienza e penserà anche ai diritti negati ai noi, italiani di seconda generazione senza cittadinanza italiana“.
L’attività sportiva nel solco dell’educazione democratica
Lo ius soli sportivo, introdotto con la Legge numero 12 del 2016, sembra essere la prima avvisaglia di riconoscimento della cittadinanza sportiva. Quest’unico articolo, diviso in due commi, si rivolge agli under18 “che non sono cittadini italiani e che risultano regolarmente residenti nel territorio italiano almeno dal compimento del decimo anno di età”. Permettendo loro di tesserarsi presso “società sportive appartenenti alle federazioni nazionali” al pari dei colleghi italiani. Si tratta soprattutto di giovani che hanno vissuto il 90% della propria vita nel nostro paese. E per i quali il test di lingua di livello b1 sarebbe mortificante. Senza distinzioni fra italiani e non, in uno sport che va oltre la cittadinanza come nel caso dell’undici Afro Napoli United e il Rugby Casale Monferrato.
Avere un’età compresa fra i 10 e i 90 anni, far battere il rigore al giocatore meno forte, essere responsabile fino a non aver più bisogno dell’arbitro. Sono tanti i casi in cui lo sport fa da collante sociale e permette la libera espressione di se stessi. Dai laboratori “etero-friendly” di Libera Rugby e Gruppo Pesce Roma al calcio sociale di Corviale – da cui sono tratte queste regole. Dai messaggi di emancipazione del roller derby alla calcioterapia di Santo Rullo. La stessa ragion d’essere delle federazioni sportive, come sancisce l’articolo 16 del Decreto legislativo 242 del 1999, retta dai principi di democrazia interna e di partecipazione all’attività sportiva da parte di tutti. È da qui che passa l’educazione democratica e che si esprime il ruolo sociale dello sport. Non solo nei confronti di chi gioca, ma anche di chi tifa.