Il progetto “Odiare non è uno sport” ha l’obiettivo di studiare i discorsi d’odio utilizzati nel linguaggio sportivo, supportare gli amatori e gli atleti che ne sono oggetto e formare delle vere e proprie squadre anti-odio. L’iniziativa, sostenuta da CVCS – Centro Volontari Cooperazione allo Sviluppo e CSEN – Centro Sportivo Educativo Nazionale, coinvolge anche atleti professionisti. Si tratta di mettere la propria faccia a sostegno dello sport come inclusione e rispetto. Di questo ce ne parla Silvia Pochettino, responsabile del network “ONG 2.0” e della campagna di comunicazione #odiarenoneunosport.
Odio nello sport, il “barometro” dice: alta pressione
Lo sport è divertimento e socialità, ma basta scavare un poco per trovare ricchi giacimenti d’odio. Ma in quali forme? Dal 7 ottobre 2019 al 6 gennaio 2020 il centro CODER dell’Università di Torino ha monitorato le pagine Facebook e Twitter delle 5 principali testate sportive italiane. Parliamo di Tuttosport, La Gazzetta dello Sport, Il Corriere dello Sport, Sky Sport e Sport Mediaset. Ne è uscito un Barometro che segnala alta pressione. I ricercatori hanno analizzato 443.567 post su Facebook e 16.991 su Twitter. “A parità di messaggi pubblicati, Facebook genera un volume di commenti 26 volte superiore a quello di Twitter” spiega Silvia Pochettino. “Non si scende mai al di sotto del 10,9% di commenti d’odio su Facebook e addirittura del 18,6% su Twitter. Il risultato più rilevante della ricerca è che il linguaggio d’odio è una componente strutturale del linguaggio sportivo”.
L’odio è un moderno Prometeo. “Abbiamo verificato – ci dice Pochettino – quattro dimensioni dell’odio: linguaggio volgare, aggressività verbale, minacce e discriminazione”. Vengono in mente gli ululati negli stadi ma anche il razzismo nello sport messo in luce da Black Lives Matter. “Sì, la discriminazione colpisce la persona per la sua appartenenza etnica o di genere“. Anche sull’odio si possono stilare delle classifiche: “Gli sportivi più bersagliati in Italia, sono Lukaku e Balotelli“. Ma è possibile individuare un identikit dell’odiatore? “Abbiamo trattato i dati in forma anonima per motivi di privacy. Possiamo tuttavia dire che i discorsi d’odio risultano più elevati nelle discussioni tra utenti. Addirittura, si perde il contenuto del post iniziale e i discorsi d’odio si sviluppano tra commentatori di tifoserie opposte. Si genera quindi un circolo vizioso”. Tutta colpa dei social? “La loro diffusione ha ampliato i discorsi d’odio che, nelle tifoserie, sono sempre esistiti. Tuttavia nell’online si registra un’ulteriore disinibizione verbale rispetto ai contesti offline”.
Il Bullyctionary e i team anti-odio
Le azioni compiute online hanno conseguenze reali. Il virtuale è reale, anche se spesso si tende a considerare queste dimensioni a sé stanti. Per monitorare e raccogliere il “bestiario” dell’odio in rete è stato presentato il Bullyctionary. “Questo strumento nasce in ambito educativo e raccoglie un ventaglio di parole sul bullismo non solo nello sport”. Organizzato con Generali Italia e ISF – Informatici Senza Frontiere, il progetto si rivolge soprattutto alla fascia d’età fra i 10 e i 14 anni, quando i ragazzi sono ancora poco strutturati e hanno maggiore necessità di essere correttamente informati. “Sono i ragazzi stessi ad aver segnalato le parole. Ciò è stato possibile grazie al lavoro educativo svolto nelle scuole”. Inoltre, Informatici Senza Frontiere sta sviluppando un chatbot per intervenire nei discorsi d’odio con delle risposte automatizzate.
Ma qual è il modo migliore per rispondere alle aggressioni verbali? Non è semplice sapere come porsi di fronte a situazioni critiche di odio nello sport. Tuttavia emerge che se si interviene nella prima fase di sviluppo dell’hate speech, nella maggior parte dei casi il conflitto si sgonfia. A tal proposito, un team di psicologi e pedagoghi costituito assieme all’Università di Trieste sta lavorando al cosiddetto “albero delle risposte”. “Il gruppo è ancora in fase di lavoro, ma presto produrrà un documento che vorremmo usare come base per la formazione delle squadre anti-odio”. Delle persone specificamente allenate, quindi. “Il nostro scopo è costituire un team che monitori pagine, campagne e gruppi online e che sia in grado di intervenire nel momento giusto”.
Storie di sport e inclusione
Lo sport è prima di tutto luogo di socializzazione, incontro e riscatto. Gli utenti si sono dimostrati ricettivi. E anche i campioni. Sono infatti numerose le adesioni di atleti professionisti alla campagna di “Odiare Non è uno Sport“. Dalla pallavolista afroitaliana Paola Egonu al ginnasta Igor Cassina, dal lottatore cubano Frank Chamizo ad Assunta Legnante, leader del getto del peso. Ma non solo: in occasione dell’ultimo campionato di calcio “abbiamo lanciato lo slogan ‘un campionato senza odio‘. Inoltre è stato chiesto alla community che si è formata in questi mesi di segnalarci casi di hate speech e di intervenire anche semplicemente ribadendo questo slogan”.
Fra le tante iniziative promosse, “Odiare non è uno sport” ha raccolto anche numerose storie di riscatto. “Tutte le storie sono fonte di ispirazione. Quella che mi ha maggiormente colpita riguarda il calcio usato come terapia psichiatrica”. La calcioterapia, inventata dallo psichiatra Santo Rullo, ha prodotto risultati straordinari. “Sono stati disputati persino dei campionati mondiali, anche se sono poche le nazioni ad avere squadre di calcio di questo tipo. Molte persone, attraverso lo sport, recuperano la considerazione di se stesse perché si rendono conto di saper fare qualcosa in modo più che soddisfacente e di essere apprezzate. È un esempio che ritengo molto significativo”. Non vediamo l’ora di vedere le squadre anti-odio, che potrebbero entrare in azione già dal prossimo campionato. Certo è, che basterebbe veramente poco. Educazione, intanto.