Jod Ke Tod, quando sport e rito si incontrano e sacro e profano si fondono

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Un po’ disciplina, un po’ gioco, un po’ rito, un po’ tradizione. E’ il Jod Ke Tod, un rito antichissimo indiano che deriva dal Dahi Handi: fa rinascere il dio Krishna e divertire le masse. E gli atleti si arrampicano uno sopra l’altro di nove livelli

Jod Ke Tod, già Dahi Handi

C’era una volta il Dahi Handi, poi è diventato Jod Ke Tod. Il primo è un rito tradizionale indiano associato alle festività dedicate alla nascita del dio Krishna. Da questo deriva il secondo che però ha assunto i contorni più competitivi diventando evento Red Bull.
L’evento originario non è proprio qualcosa di distante dal pericolo. E’ una sfida in cui gruppi di uomini, donne e bambini sono impegnati a creare una piramide umana per raggiungere un vado di terracotta ricolmo di vernice. Una piramide umana altissima, come e più di un palazzo. E quando c’è odore di rischio e sapore di estremo Red Bull arriva puntuale al rimorchio.

Così verso gli anni 2000 la competizione diventa propriamente detta. Con l’avvento della Red Bull diventa più impegnativa ancora e viene effettivamente normalizzata. Dal Dahi Handi nasce il Jod Ke Tod con regole e procedure che lo rendono uno sport a tutti gli effetti. I Govinda sono i partecipanti, sì come il nome dell’amico del Siddharta di Herman Hesse: loro si allenano di notte nelle ore in cui il caldo libera, almeno un po’, le torride strade e piazze indiane. Normalmente si svolge tra agosto e settembre.
Forza muscolare e forza bruta: questo è quello che serve per raggiungere il cielo, senza altri strumenti.
Il Jod Ke Tod è in effetti un’esaltazione della determinazione e della grinta umane che con la forza delle braccia e gambe umane possono creare una vera e propria piramide.

E sacro e profano si fondono

L’ascesa verso il cielo è simbolica. Essendo una pratica di vecchia data (vecchissima: in India esiste ed è molto diffusa da secoli), è un rituale, come tutto ciò che attiene al sacro, oltre che una vera e propria tradizione. E a proposito di tradizione, quest’ultima vuole che il Dahi Handi raffiguri il momento della vita del giovane dio in cui, salendo sulle spalle dei suoi amici, tentò di rubare del burro. L’ultimo partecipante in cima non prenderà il burro ma tenta di rompere un vaso di terracotta ricolmo di vernice. Pensare a lui nuoce gravemente alle persone che soffrono di vertigini. Ma anche chi non ne soffre. Perché in effetti non è l’altezza a fare spavento e la non paura delle vertigini non è la caratteristica primaria per partecipare.

Abilità che bisogna avere ben spiccate riguardano sicuramente la forza fisica e muscolare in primis, ma la forza d’animo non è esclusa. Forza fatta di coraggio, determinazione e fiducia. La capacità di abbandonarsi all’altro e di dedicarsi all’altro, in un gioco non gioco che è una catena umana inscindibile e complementare. Se sbaglia uno, cadono tutti. Le abilità fisiche naturali sono importanti ma lo spirito di gruppo è ciò che fa da guida.
Il coinvolgimento e la partecipazione sono totali: quando si disputano le finali tutti sembrano tornare bambini e sia gli atleti che gli altri presenti compiono rituali e cantano inni dedicati alle divinità. Cosa che di solito si fa lontano gli occhi del pubblico. Non in quel momento, in cui tutti, nel rimanere ammaliati da questo spettacolo folle e affascinante, si uniscono nel tifo e nel rito ancestrale che fa rinascere (e magari anche divertire) il dio Krishna. Così si compie quel miracolo che solo lo sport poteva essere in grado di fare: fondere sacro e profano.

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