Nella pallavolo i diritti non sono per tutte le atlete. Ce lo dimostra la vicenda di Carli Lloyd della VBC Casalmaggiore (CR). Lo scorso settembre l’alzatrice di origini statunitensi ha annunciato di essere incinta. Ma il contratto non la tutela. Perché per la legge italiana lei è ancora una dilettante e non meriterebbe le stesse garanzie dei suoi omologhi uomini (e delle sue colleghe europee). E sceglie di tornare negli Stati Uniti. La capitana del team rosanero fa emergere, di nuovo, un problema tutto italiano: il mancato riconoscimento del professionismo femminile in Serie A.
Nella pallavolo i diritti delle atlete al centro degli insulti social
“La capitana della VBC Casalmaggiore, Carli Lloyd, è incinta. Nei prossimi giorni l’atleta si confronterà con il suo ginecologo di fiducia e con il medico sociale sul prosieguo delle attività sportive”. Lo annuncia l’8 settembre l’account “VBC èpiù – Casalmaggiore” con un post su Facebook. “Naturalmente la VBC Casalmaggiore augura a Carli Lloyd una gravidanza serena ed è al fianco del proprio capitano”. La palleggiatrice ha dovuto scegliere se proseguire la stagione al Casalmaggiore o fermarsi e tornare negli Usa dal compagno. Nel corso della presentazione dei Campionati di Serie A Femminile 2020-2021 ha dichiarato di voler percorrere la seconda strada. Dal presidente Massimo Boselli Botturi, presente accanto a lei, un attestato di stima. Ma deve pensare a come sostituirla “anche se non è un momento ideale per fare mercato”.
Ed è su Facebook, dove il club ha postato la notizia, che alcuni “tifosi” hanno rivolto alla capitana insulti e commenti offensivi. “Non ritengo troppo professionale questa scelta, a meno che la gravidanza non sia stata casuale” commenta Stefano, esperto di gravidanze casuali. “La colpa è solo della Lloyd. Pensa se fossi il presidente e devi pagarla. Io sarei incazzato come una bestia”, scrive Alessandro (la grammatica è la sua). Fortunatamente si è trattato di pochi casi. La maggior parte degli utenti ha sostenuto la giocatrice con auguri e congratulazioni. Le polemiche sono una mancanza di rispetto “verso una donna e un’atleta di altissimo livello”, risponde Nicoletta. E un altro Alessandro ribadisce: “Spero che qualche leone da tastiera non sia un datore di lavoro, altrimenti se il destino del mondo dipendesse da lui tante donne (e non solo!) dovrebbero mettersi le mani nei capelli”.
Oltre ai discorsi d’odio dei tifosi, il problema è anche economico e culturale
La vicenda di Carli Lloyd del Casalmaggiore ci offre un doppio esempio. Da un lato, il mancato riconoscimento professionale delle sportive (e degli sportivi, come vediamo più avanti). Dall’altro, l’odio nello sport veicolato attraverso i social. La eco è questa: “devi fare ciò che voglio perché sei lì grazie ai miei soldi”. Come se l’atleta fosse un contenuto on demand. In più, la pallavolista non trova un clima normativo fertile in quanto è ancora considerata una dilettante. “Ora penso solo alla mia famiglia”, ha commentato. Accanto a lei anche la collega Carlotta Cambi: “Davvero diventare una mamma può essere vista come una sciagura? No, perché forse qualcuno non lo sa, ma se qualcuna di noi atlete rimane incinta il contratto è carta straccia! Non abbiamo tutele, non abbiamo la cosiddetta maternità che nel 2020 dovrebbe essere sacrosanta”.
Giocano in Serie A ma hanno un contratto da dilettanti. Il loro impegno e merito non viene riconosciuto con adeguate tutele. Stiamo parlando, oltre che delle pallavoliste, anche delle calciatrici. “Siamo le calciatrici della Serie A Femminile, si parla di noi e delle imprese della Nazionale”, dicono in una nota le nostre Azzurre. “Ma è ora di garantire le giuste tutele a tutte quante, uno status da professioniste e condizioni reali di professionismo“.
Dilettanti e professionisti: una differenza non solo nel salario ma soprattutto nelle tutele
La differenza fra dilettantismo e professionismo? Le dilettanti non godono di uno stipendio vero e proprio e scontano la presenza di un tetto salariale. “La legge 91 del 1981 disciplina il rapporto di lavoro sportivo. Ma poi sono le federazioni a stabilire quali attività sportive sono professionistiche”. Daniele Muscarà, avvocato specializzato in diritto sportivo, ci parla di contratti e tutele. “In Italia praticamente tutti gli sportivi sono dilettanti – tranne calciatori, cestisti, ciclisti, pugili e coloro che praticano golf e motociclismo. Tutte le atlete in Italia sono dilettanti”. La differenza non starebbe tanto nel compenso, quanto nelle garanzie. “I professionisti hanno un rapporto di lavoro – subordinato o autonomo – riconosciuto dalla legge, con conseguenti tutele assicurative e contributive. Al contrario, le dilettanti ne sono prive”.
“I dilettanti non hanno un contratto vero e proprio ma solamente un compenso per le attività sportive prestate le norme vigenti, prevedono anche la rescissione unilaterale quando l’atleta non svolge l’attività sportiva per un determinato numero di mesi“. Quindi se uno sportivo dilettante si rompe una gamba, si trova nella stessa situazione di un’atleta incinta? “Sì. Potrebbe. In Italia ci sono due problemi essenziali. Da un lato, c’è un fatto culturale: gli sport femminili agonistici, non sono molto seguiti dal grande pubblico. Di conseguenza, c’è un problema economico. I ricavi non sono alti quanto quelli del professionismo maschile. Meno ricavi e meno disponibilità economica per garantire contratti e tutele da professioniste“. Ma il problema, prima di essere economico è normativo, basta guardare in Europa, dove lo sport spesso ha un altro passo. “C’è maggiore attenzione. Francia e Germania sono più avanti dell’Italia. Ma la tendenza si vede: anche da noi si sta studiando una nuova cornice normativa che regoli il rapporto di lavoro sportivo a prescindere dallo status dell’atleta”. Potremmo partire pensando che una gravidanza non dovrebbe risultare peggio di un infortunio?