Il rugby in Italia è uno sport amato ma non radicato come all’estero, dove è più uno sport nazional-popolare. Questo comporta molte critiche sulla mediocrità dei risultati della nazionale italiana; ma prima di parlare in certi termini bisogna capire che la falla è in un sistema che andrebbe cambiato dal basso, a partire dalle scuole. E sarebbe anche utile ascoltare la voce di un rugbista, come Giulio Bisegni.
Il rugby secondo Giulio Bisegni
Nazionale di Rugby è l’oggetto di questa frase, Giulio Bisegni ne è il soggetto. Giulio Bisegni ha lasciato la nazionale italiana di rugby. Questa è la notizia ma in realtà è il punto di partenza per analizzare la situazione dei rugbisti in Italia, dove questo sport non è certo la punta di diamante del professionismo. Anzi non appartiene proprio al professionismo. “La Federazione Italiana di Rugby non è professionista ma dilettantistica. L’impegno per un atleta è da professionista ma nello stato dei fatti non lo è. Paghi le tasse ma non versi contributi quindi non hai né prevenzione né assicurazione. La cura dell’atleta, il post carriera e le giuste tutele non ci sono“.
Inizia così la conversazione con Giulio Bisegni, capitano delle Zebre ed ex nazionale. Ex sì perché il ventottenne di Frascati ha preso la decisione di lasciare la nazionale ma non è d’accordo con chi sostiene che gli azzurri del rugby siano mediocri. “E’ una forma di ignoranza di chi lo sostiene. Facendo un percorso a ritroso c’è da dire che quando l’Italia è entrata nel professionismo le altre squadre erano già attrezzate per questo salto, all’estero lo praticano anche nelle scuole. Le grandi squadre stanno avanti a noi di 50 anni“. Quindi se ne deduce che il problema è a monte. Come a dire senza le basi scordatevi le altezze. “Il rugby è poco inglobato nella nostra cultura e nella società. E all’epoca di quando c’è stato quel famoso salto nel professionismo non c’è stata una linea guida dirigenziale e programmatica che permettesse al rugby di porsi determinati obiettivi“
Rugby nelle scuole
In pratica? “Bisogna avere una base solida anche a livello numerico. Quanti atleti sono davvero pronti per i livelli più alti? E questo perché anche i club non sono supportati per far crescere vivai di ragazzi, soprattutto perché non tutti i giocatori hanno le stesse personali risorse. E purtroppo non si può eccellere se non c’è un sistema adeguato che permette di progredire“. I sacrifici sono da professionisti, le ricompense (non solo economiche) e il sostegno no. Bisegni dunque ci conferma che il problema è alla base.
Quest’ultima è fatta di cultura e mentalità quelle che dovrebbero aver inglobato il rugby come parte integrante affinché si formi un sistema che tuteli lo sport e chi lo pratica. Così si arriva alle altezze, ai risultati. Come accade all’estero.
“Negli altri paesi i bambini ci crescono. Dalle prime scuole alle università. A livello territoriale c’è la competitività sin da piccoli. Quando poi avviene il salto sei pronto: hai la giusta attitudine e la tecnica. Quest’ultima è molto importante ma in Italia viene svilita a volte. Si dà più importanza alla sfera attitudinale del rugbista, la sua determinazione e la sua perseveranza. Ma c’è anche (anzi soprattutto) la tecnica“. Quindi i rugbisti sono sminuiti sia nella loro definizione di atleti, perché si fa meno caso alla loro tecnica, sia a livello di tutele. Verrebbe da pensare che a un certo punto si lascia perdere perché non ne vale la pena. Con questa domanda Bisegni ci risponde in prima persona avendolo egli stesso esperito.
La soluzione è nella mentalità prima e nei club dopo
“Non ci sono tutele. In primis a livello economico perché certamente vivi agiato ma non puoi viverci bene anche nel post carriera (e comunque sono carriere ad alto rischio quindi tendenzialmente brevi). Ma non è questa la ragione primaria per cui ho lasciato la nazionale. Io giocavo col mio club e nei riposi con la nazionale. Alla fine finisci per non fare bene niente. Così mi sono lasciato solo l’attività di club potendomi dedicare ad altre attività al di fuori, come l’università”. Ma Giulio è rappresentante fortunato di un grande insieme di ragazzi che, a differenza sua, lascia questo sport ancora prima di arrivare ai grandi risultati.
Con poche tutele, grandi sacrifici e rischi elevati sono molti i giovani atleti che finiscono per abbandonare. “Ecco perché il sistema ti deve supportare almeno fino ai 18/20 anni. I club dovrebbero essere anche delle accademie che ti forgiano fin da piccolo. Il futuro passa attraverso i club: si devono affermare nella storia e nella tecnica con una rete meglio distribuita sul territorio. Organizzati con un sistema a piramide, poi saprebbero selezionare coloro in grado di giocare ai livelli più alti“.
Questa la soluzione secondo Bisegni che conclude la nostra chiacchierata raccontando qual’è la situazione all’estero dei club. “Il rugby è totalmente professionista e anche il club viene visto come un’azienda dove il giocatore è il core business della società, è al centro del progetto non solo a livello contrattuale, quindi di tutele. Anche a livello “umano”. Ci sono gli asili all’interno della società oppure aiutano l’inserimento nel mondo del lavoro delle compagne dei giocatori. Sembrano banalità ma sono aspetti centrali. Il benessere del giocatore e quindi della squadra passa anche per queste cose” conclude Bisegni. E allora che vengano queste cose, o dobbiamo aspettare 50 anni?